L’arca della democrazia. Due libri sulle aree interne
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
Cultura, Saperi, Università, Dialogo
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L’arca della democrazia. Due libri sulle aree interne

Piero BEVILACQUA

Come tutte le realtà sociali, anche i territori vivono e si trasformano per effetto delle forze del mercato. E in Italia, più che nel resto d’Europa, tali forze hanno agito con particolare potenza, divaricando il Nord ed il Sud del Paese, ma anche le montagne dalla pianura, le aree interne dai litorali costieri. Là dove le attività produttive sono più dinamiche, più agevoli e meno costose le infrastrutture viarie, dunque più ampie e diversificate le fonti di reddito e più intensi gli scambi, là tende a concentrarsi la popolazione, i servizi, gli investimenti, i processi culturali avanzati. Da decenni, in Italia al vecchio divario Nord-Sud – pascolo mai disseccato delle retoriche nazionali – si è accompagnata la crescente divaricazione tra le Alpi e gran parte della Pianura padana, tra la dorsale appenninica e le terre delle coste, tra la campagna e le città. Un processo iniziato ai primi del ‘900, che ha conosciuto un balzo rilevante dopo la seconda guerra mondiale, al punto da far parlare Lucio Gambi, già nel 1972, di «un’imponente alluvione demografica che ha invaso le fasce litorali». Un fenomeno che da diversi anni si presenta in forme sempre più laceranti, anche se attraversato da controtendenze demografiche importanti.

Vanno perciò salutati con particolare favore gli studi che incominciano a indagare in termini storici e attuali quanto sta avvenendo nella Penisola. È il caso della monografia di Lidia Decandia e Leonardo Lutzoni (La strada che parla. Dispositivi per ripensare il futuro delle aree interne in una nuova dimensione urbana, F. Angeli, pp. 232, € 32) dedicata a un’area dell’Alta Gallura in Sardegna, che ha visto lo spopolamento della montagna Limbara, un territorio di selvaggia bellezza, per lo scivolamento a valle degli antichi insediamenti che hanno dato vita a una «città lineare costiera».

Il testo si segnala tra l’altro per l’originalità della scrittura della Decandia, piena di suggestioni e di echi musicali, che non sono ghiribizzi estetici ma un modo profondo di guardare al territorio, il quale non è fatto di rocce e di case, ma anche di armonie spaziali, di rapporti invisibili, di immaginario. Una prosa che è in aperto antagonismo con quella dell’utilitarismo economico dominante nella lingua delle scienze sociali. Oggi è diventato arduo leggere, poniamo, un qualsiasi testo di economia agraria, irto di sigle, cifre, tecnicismi, che sembra scritto non da un uomo o una donna dotati di sentimenti e immaginazione, ma da un robot. Estrema incarnazione linguistica del pensiero unico.

Ai territori marginali dedicano ora un prezioso insieme di saggi Marco Marchetti, Stefano Panunzi e Rossano Pazzagli, nel volume Aree interne. Per una rinascita dei territori rurali e montani, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2017 (135 pp., €15). Si tratta di un lavoro a molte mani, sorto per iniziativa di Pazzagli, un storico autorevole delle nostre campagne, che coinvolge in un dialogo intradisciplinare una molteplicità di esperti, dai giuristi agli antropologi, dai geografi ai sociologhi, dagli economisti agli agronomi e ai forestali.

La novità di questo lavoro si segnala soprattutto per i dati aggiornati e di varia natura che esso offre al lettore. Intanto la nozione di area interna, sottratta all’incertezza di una pura definizione geografica: si definisce tale un centro abitato lontano da servizi fondamentali per la vita di una comunità, come sanità, scuola, trasporti. È una definizione nata all’Interno del Dipartimento per lo sviluppo e la coesione economica nel 2013, quando era diretta da Fabrizio Barca. Ed è la definizione a cui si ispira la Strategia Nazionale per le Aree Interne attualmente in vigore, che opera su 68 aree pilota, comprendente oltre mille comuni, e che fa il paio con iniziative consimili a livello europeo (Obiettivi di Sviluppo Sostenibile nella Strategia Europa 2020) e su scala internazionale (Transforming our world: the 2030 Agenda for Sustainable Development, dell’ONU)

I vari contributi di più autori illustrano aspetti rilevanti del problema, oltre a fornirci informazioni preziose su politiche e normative spesso ignote. Si pensi al fenomeno imponente dei processi di erosione e ai disastri che ne conseguono illustrato da C. Colombo e A. Belligiani, Convivere con le frane, che rammentano, insieme alle perdite di vite e abitati, la cifra di oltre un miliardo spesa dallo stato per far fronte alle emergenze immediate tra il 2009 e il 2011. Oppure ai dati sugli andamenti demografici (nel saggio di F. Ferrucci, C. Tomassini e G. Pistacchio) che mostrano un decremento della popolazione italiana tanto nelle aree interne quanto, dal 2015, in generale, a dispetto degli apporti dell’immigrazione. Dati che anderebbero ricordati agli imprenditori della paura che cianciano di “invasione” da parte dei migranti.

Ma il libro va segnalato soprattutto per l’ispirazione strategica che lo sorregge. Le aree interne non sono più luoghi bisognosi di politiche assistenziali. Essi costituiscono un’arca di risorse da utilizzare con l’apporto di nuova popolazione e l’occasione per ridare ai comuni – il nucleo storico attorno a cui per millenni, in Italia, si sono raccolte le comunità – un nuovo protagonismo politico. Le aree interne sono perciò l’occasione per una iniziativa dal basso, che veda protagonisti i giovani italiani e quelli in fuga dalle varie periferie del mondo, in grado di ridare nuova vita alla democrazia, oggi apertamente coartata dai poteri sovranazionali.

 

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