RIFORMA O CONTRORIFORMA? da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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RIFORMA O CONTRORIFORMA? da IL MANIFESTO

Sinistra e sanità, oltre il pensiero povero

Il libro. In un pamphlet di Ivan Cavicchi, una proposta di riforma radicale del Ssn pubblico dopo la crisi della pandemia. Secondo l’autore, quella del ministro Speranza si può definire al massimo la terza “controriforma”

Andrea Capocci  01.08.2021

Si fa presto a dire «riforma». Che la sanità italiana ne abbia bisogno è ormai un dato scontato per tutti, dopo la pandemia. Ma quale riforma sia necessaria è tema di discussione. Si dirà: non bastano le pagine scritte nel Pnrr, che per la riforma sanitaria stanzia circa 20 miliardi di euro nel prossimo quinquennio? Per Ivan Cavicchi, autore di La sinistra e la sanità. Da Bindi a Speranza e in mezzo una pandemia, da poco pubblicato dall’edizione Castelvecchi, non bastano. Quella delineata dall’attuale ministro della sanità Roberto Speranza al massimo può definirsi l’ennesima “controriforma”: la terza a partire dall’introduzione del Servizio sanitario nazionale con la legge 833 del 1978, dopo il suo “riordino” ad opera del governo Amato nel 1992 e la riforma del 1999 firmata dalla ministra Rosy Bindi.

Tra le varie riforme, da quella del 1992 che introdusse le “aziende sanitarie” e le affidò alle regioni fino al Pnrr di Speranza, corre un filo rosso, osserva Cavicchi: in tutti e tre i casi a mettere mano alla sanità è stata la sinistra, con la forte impronta degli amministratori emiliani tradizionalmente legati al Pci. E ogni volta lo fece tradendo la natura pubblica e universale del servizio sanitario nazionale introdotto nel 1978.

Sia il governo Amato che la ministra Bindi, infatti, hanno eroso il disegno originale della riforma del 1978, che poneva la salute come diritto sociale inalienabile del cittadino e prendeva atto del fallimento economico del sistema delle “mutue” private. La riforma del 1992 ha fissato criteri aziendalistici per l’erogazione dei servizi sanitari. Quella del 1999 invece ha reintrodotto i fondi integrativi, vietati dalla legge del 1978.

Rosy Bindi è tuttora considerata un baluardo contro l’ondata neoliberista dei governi di fine anni ‘90. La lettura di Cavicchi invece è opposta: «Per recuperare la deriva neoliberista della sanità, Bindi è stata più neoliberista degli altri». A completare l’opera di smantellamento della riforma del 1978 sono arrivate la riforma costituzionale federalista, che ha di fatto regionalizzato la sanità italiana. E l’adozione della “quota capitaria ponderata”, l’algoritmo utilizzato per distribuire il fondo sanitario nazionale alle regioni: grazie a questo calcolo, le regioni del sud più bisognose in termini di assistenza sono state sotto-finanziate rispetto a quelle del nord.

A motivare le “controriforme” è stata l’esplosione del debito pubblico italiano. Con la pandemia, si direbbe leggendo i documenti del Pnrr, l’epoca dell’austerity sembrerebbe ormai alle spalle. Eppure, secondo Cavicchi, anche la riforma elaborata da Speranza non si discosta dalla linea dei suoi predecessori. Certo, il capitolo sanitario del Pnrr prevede una robusta iniezione di denari. Ma aumentare i fondi a disposizione di un sistema sanitario già largamente privatizzato e squilibrato dalle riforme precedenti non gli restituisce una natura pubblica, anzi: rischia di accontentare l’industria sanitaria privata e di allargare le disuguaglianze tra cittadini e tra territori. «Che senso ha – chiede provocatoriamente Cavicchi – fare la battaglia culturale per dire che la sanità non è un costo ma un investimento e nello stesso tempo non fare nulla per bloccare la privatizzazione in atto, magari iniziando ad abolire gli incentivi fiscali ai fondi e alle mutue?».

Per l’autore, al «pensiero povero» di Speranza andrebbe contrapposta una reale proposta di “quarta riforma”, e Cavicchi ne delinea le linee principali, che investono sia l’organizzazione che i contenuti del servizio sanitario. Cavicchi evidenzia l’importanza di ridefinire il “territorio”, parola-mantra ripetuta fino a svuotarne i contorni. E pone l’accento sul coinvolgimento delle persone nella riforma: dei cittadini che a vario titolo costruiscono, ciascuno nel suo ruolo, la comunità a cui si dirige l’azione sanitaria. Il pamphlet (così lo definisce Alfonso Gianni nella prefazione) di Cavicchi propone una rifondazione della sanità pubblica all’altezza della crisi determinata dalla pandemia. Forse è un sogno, che non riguarda solo la sanità ma la stessa sinistra. «Se non si sogna si resta inchiodati alla realtà dei problemi – spiega l’autore – e alla fine l’unica cosa che sembra possibile è “amministrarla”».

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