Il centro-sinistra è neo-liberista
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
Cultura, Saperi, Università, Dialogo
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Il centro-sinistra è neo-liberista

di Piero BEVILACQUA, da “il manfiesto”, 20 settembre 2017

Centro-sinistra sì, centro-sinistra no, alleanza con il Pd, alternativi al Pd, coalizione con Renzi, mai con l’ex presidente del consiglio, e così continuando. La discussione a sinistra, come al solito, è desolatamente appiattita sugli schieramenti.

E naturalmente sulle schermaglie tattiche, sui posizionamenti in vista della campagna elettorale. La vita delle formazioni politiche – chiamiamole così – gira esclusivamente intorno a questo torneo, come squadre di calcio il cui unico compito è di affrontare il campionato. Eppure, basterebbe guardare ai contenuti, alle scelte programmatiche per rendere più chiare e dirimenti le scelte di schieramento.

Consideriamo il programma della manovra economica del governo Gentiloni. A detta dello stesso presidente del consiglio essa è «in linea con quelle che l’hanno preceduta». Ce n’eravamo accorti. Dopo i 18 miliardi e passa di euro generosamente elargiti alle imprese in tre anni dal governo Renzi, ora ci si prepara a replicare un fallimento lungamente sperimentato. Di nuovo agevolazioni fiscali e incentivi a chi assume, di nuovo si pompa l’economia dal lato dell’offerta a suon di denaro sottratto alla fiscalità generale e dunque agli investimenti pubblici.

Sì, certo, nella manovra ci sono le invenzioni clientelari di contorno: l’«assegno di ricollocazione» con cui si cerca di sistemare «attivamente» disoccupati e cassintegrati o il «Reddito di inclusione attiva», con cui si dovrebbe coprire una platea di 1 milione e 800 mila individui con un assegno oscillante tra 190 e 485 euro mensili.

Gocce nel mare della disperazione sociale. Mentre per il Mezzogiorno si pensa addirittura alle «Zone economiche speciali» con facilitazioni fiscali e semplificazioni di procedura per i giovani che avviano imprese e naturalmente per le multinazionali che dovrebbero essere attratte da ulteriori condizioni di favore. Come se non bastassero i bassi salari dei lavoratori italiani e la loro piena disponibilità da parte delle imprese. Evidenti palliativi di sostanza ma che consentono al governo e al Pd una narrazione di impegno sociale elettoralmente utile.

Ora, per cortesia, un po’ di storia. Intanto osserviamo i brillanti risultati, a tutti noti, in termini di occupazione, soprattutto giovanile, tralasciando il processo di precarizzazione che è dilagato nel mondo degli occupati. Questa politica di agevolazione fiscale alle imprese è la vecchia supply-side economics, l’economia del sostegno all’offerta, una invenzione del pensiero neoliberistico. E non esprimiamo una idiosioncrasia intellettuale. Parliamo sulla base di prove storiche.

L’amministrazione di G. W. Bush, ad esempio, ha tagliato, in due trance di ben 1025 miliardi di dollari le tasse ai ricchi degli Usa, senza che tanta generosità si traducesse in nessun modo in slancio dell’economia americana. E soprattutto dell’occupazione. I ricchi privati, ha ricordato James Galbraith – che ha ribattezzato la teoria supply-side failure – «hanno risposto punteggiando il paesaggio di case signorili». Hanno cioè investito nella rendita e nel lusso.

Ma questa politica – praticata nel mondo da gran parte dei governi nell’ultimo trentennio – rappresenta uno degli assi strategici, forse il più rilevante e decisivo, che ha condotto alla Grande Crisi del 2008. Essa ha prodotto un gigantesco trasferimento di ricchezza dai ceti popolari alle classi abbienti, ha generato le abissali disuguaglianze che abbiamo sotto gli occhi e che attanagliano nella stagnazione l’economia mondiale. Da noi, per soprammercato, alimenta un enorme debito pubblico.

Continuare su questa linea, come fa oggi il governo Gentiloni, ha delle conseguenze rilevanti. Se i soldi vanno alle imprese scarseggiano per un grande programma di ristrutturazione del territorio, non ci sono per la ricerca e l’Università, per le borse ai giovani bisognosi che rinunciano a proseguire gli studi, non ci sono per i comuni che non riescono a garantire i servizi essenziali, non ci sono per gli investimenti nel nostro Sud.

Il nobel Paul Krugman, nel 1998, sosteneva a proposito della teoria dell’offerta che «Gli errori economici non muoiono mai: nella migliore delle ipotesi, si affievoliscono lentamente». E c’è ovviamente del vero. Ma poiché noi non crediamo, nel nostro caso, nella capacità del nostro ceto politico di elaborare teorie economiche, riteniamo che le opzioni delgoverno Renzi (Jobs Act, abolizione dell’Imu sulla prima casa, ecc) e quelle attuali di Gentiloni siano una deliberata strategia di classe.

Il Pd ha scelto con piena consapevolezza di insediarsi socialmente, di fondare i propri consensi negli interessi del mondo imprenditoriale e della finanza. Punto.

Tutto il resto è manovra propagandistica per mantenere un po’ di consenso nel vecchio blocco popolare su cui si fondava il Pci. È di questo che si dovrebbe discutere, delle conseguenze di tale strategia per il destino del paese e scegliere da che parte stare.

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