AMBIENTE: ITALIA A GIUDIZIO PER “INAZIONE CLIMATICA” da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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AMBIENTE: ITALIA A GIUDIZIO PER “INAZIONE CLIMATICA” da IL MANIFESTO

«Inazione climatica», per l’Italia arriva il Giudizio Universale

Ambiente. L’associazione Asud ha citato in giudizio il governo italiano, chiedendo politiche incisive contro il riscaldamento globale

Daniela Passeri  16.12.2021

Incontrano Greta e i ragazzi di Fridays for Future, partecipano ai vertici e siglano accordi internazionali, validano i rapporti dell’IPCC, rilasciano dichiarazioni su quanto sia grave la minaccia climatica, ma poi i rappresentanti dello Stato italiano fanno poco o nulla, nel concreto, contro i cambiamenti climatici. Per questo, davanti a un giudice del Tribunale di civile di Roma, sul banco degli imputati c’è ora lo Stato italiano, accusato di inerzia e negligenza nell’affrontare la crisi climatica. A portarlo alla sbarra 203 tra associazioni e cittadini, tra cui 17 minorenni, su iniziativa dell’associazione Asud, da sempre impegnata sul fronte della giustizia ambientale e promotrice della campagna Giudizio Universale da cui è scaturita la causa. Al Tribunale i ricorrenti chiedono che lo Stato metta in atto tutte le azioni che la scienza indica come necessarie per affrontare la crisi del riscaldamento globale affinché venga rispettato il diritto umano a un clima stabile e sicuro. Non chiedono un risarcimento, ma politiche incisive per stabilizzare il clima.

«Il nostro obiettivo è duplice – spiega Marica Di Pierri, portavoce di Asud – A livello giudiziario miriamo a vedere riconosciute e accolte le nostre istanze. Che lo Stato italiano è responsabile di inazione climatica è un dato di fatto. I target di riduzione nazionali sono molto al di sotto dei target europei e assolutamente insufficienti a centrare l’obiettivo assunto firmando l’accordo di Parigi. A livello politico ci auguriamo che la causa giudiziaria sia un ulteriore elemento di pressione sul governo. Se non bastano gli allarmi della scienza, le cronache che sempre più spesso raccontano quanto sia pericolosa l’emergenza climatica anche per il nostro paese, la pressione di dover rispondere delle proprie azioni (e inazioni) di fronte a un tribunale della Repubblica speriamo faccia la differenza. Ciò che conta, ciò a cui ogni sforzo mira, è l’adozione da parte dell’Italia di politiche climatiche all’altezza della sfida. Non possiamo permetterci di perdere altro tempo. Ogni giorno di ritardo ha un costo elevatissimo, non solo in termini di devastazione ambientale ma anche di violazione dei diritti fondamentali».

Con le misure messe in atto fino ad ora dall’Italia secondo le indicazioni contenute nel PNIEC (Piano integrato per l’energia e il clima, del dicembre 2019), le emissioni dei gas serra nel 2030 potrebbero diminuire soltanto del 26% rispetto ai livelli del 1990, quota molto inferiore rispetto all’obiettivo europeo che impone un taglio del 55% e a quello indicato negli scenari della comunità scientifica dove si suggerisce di abbattere le emissioni di almeno il 65% a livello globale, quota che va declinata stato per stato. Nell’atto di citazione si richiede al giudice di condannare lo Stato italiano a tagliare del 92% le sue emissioni entro il 2030, nel rispetto del principio di equità e di responsabilità comuni ma differenziate riconosciute nel diritto climatico per un paese industrializzato come l’Italia che, dalla Rivoluzione industriale in poi ha accumulato un consistente debito ecologico nei confronti dei paesi in via di sviluppo. La quota del 92% è indicata nello studio dell’istituto tedesco Climate Analytics Impatti del clima in Italia, messo agli atti del processo, che tiene in considerazione sia le responsabilità storiche dell’Italia che le sue dotazioni tecnologiche.

Sono almeno 6 i vincoli che obbligano gli Stati ad agire: il Regolamento UE n. 2018/842 che obbliga gli Stati a ridurre le emissioni sulla base delle indicazioni dell’IPCC e degli obiettivi dell’Accordo di Parigi; c’è poi un dovere di equità e solidarietà fra Stati nel definire le quantità parziali di riduzione delle emissioni; un dovere dello Stato di orientare le proprie politiche sulla base degli scenari e delle indicazioni della comunità scientifica; l’obbligo di utilizzare il principio di precauzione climatica come sancito nella Convenzione quadro dell’Onu sui cambiamenti climatici; infine, l’obbligo del rispetto dei diritti umani, che implica anche il diritto dei cittadini ad essere informati su quanto lo Stato sta facendo per contrastare il cambiamento climatico.

La causa contro lo Stato italiano è l’ennesima azione giudiziaria intentata nel mondo contro l’inazione della politica, sulla scorta di altre cause vinte che hanno fatto da apripista alla climate litigation. Tra le più significative quella dell’ong Urgenda che ha avuto ragione contro lo Stato olandese ritenuto colpevole dalla Corte Suprema dell’Aja il 20 dicembre 2019 di non aver rispettato gli impegni climatici e condannato a tagliare in un solo anno il 5% circa delle emissioni. In concreto, per rispettare la sentenza, il governo di Mark Rutte ha dovuto ridurre del 75% l’attività delle centrali a carbone (due erano state aperte dopo la firma dell’Accordo di Parigi) e stanziare 3 miliardi di euro in varie azioni di contenimento delle emissioni di gas climalteranti.

Addirittura rivoluzionaria viene ritenuta da alcuni osservatori la sentenza della Corte Costituzionale tedesca emessa il 24 marzo 2021. Accogliendo diversi ricorsi costituzionali presentati contro la legge sul Clima in vigore in Germania dal 2019, l’Alta corte tedesca ha imposto al governo di rivedere al rialzo la sua azione climatica ritenendo i target di riduzione delle emissioni al 2030 non abbastanza ambiziosi in quanto scaricano sui decenni successivi, ovvero sulle generazioni future, gran parte delle misure per stabilizzare il clima. Nella storica sentenza si legge che «ogni tipo di libertà potrebbe essere condizionata da queste future riduzioni obbligatorie, perché quasi tutti gli aspetti della vita umana sono ancora associati all’emissione di gas serra e quindi sono minacciati dalle restrizioni drastiche che si dovranno attuare dopo il 2030». Secondo i giudici di Karlsruhe «a una generazione non dovrebbe essere permesso di consumare buona parte del bilancio di anidride carbonica sostenendo un onere relativamente leggero, laddove ciò comporti per le successive generazioni il dover sopportare un onere più radicale ed esporre le loro vite a una più ampia perdita di libertà».

Il governo tedesco avrà tempo fino al 31 dicembre 2022 per migliorare la sua legge sul Clima, cosa che il governo italiano non può fare perché noi una legge sul clima nemmeno ce l’abbiamo.

«Dall’Italia nessuna azione concreta contro il riscaldamento»

Intervista. L’avvocato Raffaele Cesari: se tutti gli stati si comportassero come il nostro, la temperatura aumenterebbe di tre gradi

Daniela Passeri  16.12.2021

«Se la politica funzionasse bene, i cittadini non farebbero causa allo Stato. Detto questo, non pensiamo che il diritto di per sé possa cambiare il mondo. Però può diventare uno strumento trasformativo». Raffaele Cesari è uno dei tre avvocati che assistono l’associazione Asud e i 200 ricorrenti nella causa climatica contro lo Stato italiano accusato di non fare abbastanza per contrastare il cambiamento climatico.

Avvocato, come è nata l’idea di portare lo Stato in tribunale?

Abbiamo deciso di ricorre alla giustizia – cosa che sta avvenendo in molti stati nel mondo, sono almeno 1500 i contenziosi climatici censiti fino ad oggi – perché lo Stato italiano, pur avendo firmato accordi internazionali particolarmente rilevanti come l’Accordo di Parigi, pur avendo assunto promesse solenni e fatto dichiarazioni che ammettono la gravità della situazione, non ha tradotto questi impegni in misure concrete. Da qui il ricorso al tribunale che di per sé non crediamo possa essere risolutivo, tanto che ci troviamo nell’ambito di quella che viene definita strategic litigation, o giudizio strategico. Non si tratta semplicemente dell’accesso alla giustizia, ma di portare avanti un’azione più complessiva di sensibilizzazione della società e dell’opinione pubblica rispetto all’emergenza climatica. Per fare un esempio, noi in Italia abbiamo avuto l’introduzione del reato di tortura in seguito all’attivazione di un giudizio strategico da parte di un detenuto. Non solo venne fatto un ricorso davanti ad un tribunale, ma questo contribuì a far nascere nella società un movimento di sensibilizzazione e partecipazione.

Una strategia per riportare il dibattito sul clima al centro del dibattito politico e magari anche sui media?

Il problema è superare il muro di gomma, poi c’è la difficoltà, riscontrata un po’ in tutti gli stati, di fare valere gli obblighi internazionali adoperando gli istituti del diritto nazionale. Del resto il cambiamento climatico è un fenomeno inedito. Per certi versi il diritto sconta una certa arretratezza. Come sappiamo, il diritto arriva sempre dopo che si sono manifestati certi fenomeni. Ciò non toglie che esistono degli istituti giuridici tradizionali che possono essere interpretati per ricondurre al loro interno anche il fenomeno dei cambiamenti climatici. Noi l’abbiamo fatto utilizzando una norma cardine del nostro ordinamento, l’articolo 2043 del codice civile, neminem laedere, nella sua interpretazione preventiva. In sostanza, quando sono in gioco diritti fondamentali come il diritto alla salute, alla vita personale e familiare, all’ambiente salubre, non serve attendere che il danno si produca, semmai serve agire per prevenire il danno. Questa interpretazione è avallata da una sentenza molto interessante della Corte Costituzionale del 1987 scritta un anno dopo la tragedia di Chernobyl e dopo la pubblicazione del bellissimo libro di Ulrick Beck La società del rischio, ovvero nel momento in cui si è formata nella società una sensibilità particolare.

Esiste dunque un diritto al clima sicuro?

Il diritto al clima stabile e sicuro deriva per via interpretativa dal diritto alla vita, alla salute, alla vita familiare. Il clima sicuro è il presupposto di tutti quanti i diritti, ovunque.

Sotto accusa c’è il Pniec, Piano nazionale integrato energia e clima, il documento programmatico dello Stato, di cui da più parti, e non solo dal mondo ambientalista, si chiede un aggiornamento. Voi ne avete fatto una disamina molto puntuale: basterà aggiornarlo alzando l’ambizione o va cambiata l’impostazione?

Questo non spetta a noi dirlo. Noi diciamo che lo Stato è inadempiente e che le misure contenute nel Pniec non sono sufficienti. Se tutti gli stati si comportassero come l’Italia, secondo i calcoli di Climate Analytics, un istituto di ricerca molto autorevole, arriveremmo ad un aumento della temperatura di 3°C entro la fine del secolo. Sarà lo Stato a decidere come intervenire.

La parola tornerà al Parlamento?

Nel caso in cui dovesse essere condannato, come ci auguriamo, lo Stato adotterà le iniziative che ritiene necessarie. Noi su questo non mettiamo parola. Non c’è dubbio che con questa causa noi abbiamo individuato un vulnus, una lacuna della politica.

Il negazionismo climatico può essere ancora usato come argomentazione giuridica?

No. Del resto anche i trattati internazionali, come la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del 1992, rinviano continuamente alle acquisizioni della scienza. Nel nostro caso, la scienza consolidata dei report IPCC che lo Stato italiano ha firmato e sottoscritto. Aderendo a questi documenti è come se lo Stato italiano avesse consumato la sua discrezionalità. Nel nostro ordinamento esiste la cosiddetta riserva di scienza, ovvero esiste un nucleo di sentenze della Corte Costituzionale che affermano che l’attività dei pubblici poteri è vincolata alle acquisizioni scientifiche. Nel caso dei cambiamenti climatici, l’esistenza di un consenso scientifico solido sulla necessità di contenere l’aumento della temperatura per prevenire i danni e sulla necessità di farlo tagliando le emissioni di gas serra, vale a limitare la discrezionalità politica e amministrativa, perché sono in gioco diritti fondamentali.

Le sentenze di condanna per inadempienza climatica del caso Urgenda contro lo Stato olandese, quella più recente Affaire du siècle contro lo Stato francese o la sentenza della Corte Costituzionale tedesca che impone di rivedere la legge sul Clima, fanno in qualche modo giurisprudenza?

Sì, anche se non in maniera decisiva. Quello che riscontriamo è che la tendenza degli ultimi contenziosi in Europa è stata molto positiva. Sembra che ci sia una sensibilità che arriva anche nelle aule dei tribunali.

Prima di depositare la citazione in giudizio avete cercato di interloquire con il governo o i governi di questi ultimi anni?
No, almeno non formalmente. Del resto la citazione in giudizio era stata ampiamente annunciata.

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