Sul pessimismo e la barbarie. Estratti da un carteggio
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
Cultura, Saperi, Università, Dialogo
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Sul pessimismo e la barbarie. Estratti da un carteggio

Scambio di mail in relazione all’articolo Un’arma pacifica contro la barbarie di Piero Bevilacqua.

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20 aprile 2017

Bravo Piero!!!

Purtroppo, in passato queste campagne c’erano e portavano buoni frutti. Un alfiere di questo tipo di lotta è stato Francuccio Gesualdi del Centro Nuovo Modello di Sviluppo di Pisa. Ma, adesso chi si indigna più, chi pensa di reagire alla barbarie? Provate a salire sulla metro o su un treno e contate quanta gente legge o discute: pochissimi! La maggioranza è inchiodata sul telefonino in un atteggiamento da monade triste e sola. Chi discute più animatamente come una volta? Ci si litiga solo per le partite di pallone !

Questo è il punto. E non so che cosa proporre….

Tonino

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20 aprile 2017

La storia, oggi, è la più dimenticata delle discipline; sembra quasi che non serva più a nessuno; conta solo il presente. Procura perfino sorpresa e stupore sapere che ciò cui stiamo assistendo si è già svolto nel passato (come ce lo ricorda Piero); è in atto un processo di avvelenamento molecolare che sbiadisce la memoria, insterilisce le passioni, ci schiaccia sull’istante del consumo, l’unico che produce l’illusione di essere vivi: consumo ergo sum.

Un vecchio detto dice: a forza di sbattere la testa contro il muro, vedrai che il muro cede.

È l’unico pensiero di ottimismo che posso regalare a Piero,

Enzo

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Caro Piero,

sai che sono totalmente convinto dell’efficacia di un boicottaggio mirato di determinati beni di consumo come strumento di lotta. Ne abbiamo parlato anche nel nostro ultimo incontro a Roma. Proprio per questo penso che il tuo bellissimo articolo debba avere un seguito anche in termini d’iniziativa politica. Ovviamente occorre studiarne bene i termini. Per quanto mi riguarda sono pronto a collaborare.

Un abbraccio,

Ignazio

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24 aprile 2017

Care amiche e cari amici,

ringrazio per gli apprezzamenti al mio articolo Ignazio, Giorgio, Enzo, Gigi, Franco, Tonino, ad alcuni dei quali debbo poi specifiche risposte per i contributi che mi hanno inviato. Uso la mail collettiva, tuttavia, non per degli ovvi ringraziamenti ad amici e colleghi cui mi legano collaudati rapporti di affetto e di reciproca stima. Ma lo faccio per svolgere delle considerazioni che spero possano essere di qualche utilità per tutti noi. Lo spunto mi viene dai commenti pessimistici e anche sconsolati che accompagnavano le mail di Enzo e di Tonino. Premetto che sono lontanissimo dal voler fare una lezione morale a chicchessia, meno che mai ai due miei cari amici. Tonino Perna ha alle spalle una intera vita passata a lottare per gli altri in Calabria, in Italia e in giro per il mondo. Enzo Scandurra è il compagno di tante battaglie condotte insieme a Roma da almeno due decenni. E naturalmente non è in discussione il pessimismo. Credo che essere ottimisti nella nostra epoca corrisponda ad una delle forme più gravi di stupidità umana. Tutti viviamo una condizione sconsolata, quando non disperata, di fronte, non solo alla frantumazione del nostro fronte di lotta politica, quanto soprattutto davanti alle tragedie che si consumano quotidianamente sotto i nostri i nostri occhi di spettatori impotenti.

Chi di noi non freme di amarezza e di rabbia osservando in televisione gli occhi disperati di uomini e donne (e ahimé di bambini) che implorano i loro aguzzini da dietro un filo spinato? E non è solo questo.Io non riesco proprio a pensare ai milioni di bambini che vanno a dormire sopra un qualsiasi giaciglio, divorati dalla fame, senza che le madri possano far nulla se non cercare di farli sprofondare nel sonno. Non riesco a pensarci che mi assale un dolore troppo grande. E tuttavia credo che dobbiamo compiere uno sforzo di freddezza e di razionalità. Sappiamo non da oggi, che il mondo, come diceva Gramsci, è «grande e terribile». Forse un tempo era ancora più terribile e nessuna televisione lo mostrava ai contemporanei, come accade a noi, mentre siamo intenti a consumare il pranzo o la cena. Naturalmente oggi fa ancora più senso ed è ancora più assurdo di un tempo che il mondo sia terribile, perché la ricchezza che inonda le nostre società è incomparabile rispetto a quella del passato e potrebbe essere distribuita equamente togliendo di mezzo per lo meno lo spettro della fame ai paesi poveri. Ma io credo che una visione più critica, soprattutto una visione storica, ci possa aiutare a superare lo sconforto e ridarci la voglia di continuare a lottare. Ricorro spesso al mio mestiere per trovare ragioni non superficiali e non consolatorie per riprendere il mio impegno con rinnovata lena.

Faccio subito un esempio. Tonino ricorda nella sua mail i giovani istupiditi a picchiettare a testa bassa i loro cellulari. Chi di noi può smentirlo? Eppure bisogna fare una considerazione storica, per capire meglio il fenomeno e anche per dargli la giusta dimensione. I ragazzi che oggi si istupidiscono nei video giochi e in altre forme di asservimento di massa sono per lo più gli stessi che, 50 anni fa, uscivano da scuola con la quinta elementare ed entravano nel mondo del lavoro, non leggevano un libro o un giornale per tutto il resto della loro vita. Ma accanto a queste attuali vittime del conformismo consumistico sono cresciute tuttavia schiere e schiere di ragazzi che leggono libri, vanno ai concerti e ai musei, partecipano in massa ai festival di letteratura o filosofia, ecc. E oggi sono assai più numerosi che in passato. È sufficiente guardare le statistiche storiche sulla crescita della scolarità per rendersi conto di questa verità: oggi l’élite colta e motivata tra le nuove generazioni è incomparabilmente più ampia rispetto al passato. Ho già documentato tale calcolo nelle prime pagine del mio l’Utilità della storia.

Del pari ingannevole è l’idea corrente nel nostro ambiente secondo cui, per dirla in gergo, “non ci sono più i buoni intellettuali di una volta”. Vale a dire gli intellettuali che negli anni ’60-70 si facevano sentire sui grandi temi della vita pubblica con una qualche efficacia. Ho appena svolto questa riflessione in una conversazione con Ilaria Agostini al festival di Pistoia “Leggere la città” e la sintetizzo qui. La questione è mal posta. Non è che non esistono più gli intellettuali. Questi, rispetto a quei decenni, sono di gran lunga più numerosi. Basterebbe sapere che il numero dei docenti universitari, rispetto agli anni ’60 è raddoppiato (senza contare gli insegnanti scolastici, che gramscianamente andrebbero considerati degli intellettuali, alcuni dei quali lo sono a pieno titolo e sono anche nell’Officina). Naturalmente non tutti i docenti universitari sono intellettuali civilmente impegnati, tuttavia la schiera delle élite colte è molto ingrossata anche per effetto dell’ “esplosione” di alcune discipline, come “ecologia”, che ha dato a tanti campi scientifici una proiezione civile e politica prima inesistente tra le scienze naturali. Del resto basta navigare un po’ per la rete per scoprire – certo, insieme a tanta spazzatura, ma bisogna stare attenti in quali acque si naviga – articoli e saggi di qualità, scritti da perfetti sconosciuti. Spesso sconosciute, perché rispetto ai decenni passati è cresciuto il numero di intellettuali che sono donne! E allora? In realtà dobbiamo dire che è diminuita l’efficacia dei saperi intellettuali sulla politica, ma per la semplice ragione che i partiti di massa impegnati a cambiare la società (e che un tempo avevano qualche bisogno degli storici, dei sociologi, filosofi, pedagogisti, ecc.) si sono dissolti. Al loro posto rimangono agenzie di marketing elettorale, un ceto politico che non ha bisogno di elaborare un qualche progetto di società, ma di vincere le competizioni elettorali, come partecipare al campionato di calcio. Per tale fine gli intellettuali di cui necessitano sono gli analisti delle tendenze elettorali, i sondaggisti d’opinione. C’è bisogno di Gramsci? Basta Sandro Pagnoncelli.

Certo, non è che questo quadro sia consolante. Ma bisogna conoscere bene quale tipo di disastro abbiamo davanti se vogliamo tentare di porvi rimedio e trovare una via giusta. Dico questo anche per un’altra ragione conclusiva. La politica, soprattutto quella generosa e disinteressata di chi la fa per l’interesse generale, si nutre di stati d’animo, di sentimenti, di entusiasmi, di calore collettivo.

(Non posso fare a meno di ricordare con quanta efficacia Lenin descrive, ne L’estremismo (1920) l’entusiasmo e la creatività che formava il clima psicologico delle persone nei giorni della rivoluzione). Ebbene, l’entusiasmo, come il coraggio per Don Abbondio, non ce lo possiamo dare, visti i tempi. Ma dobbiamo anche sapere che gli stati d’animo oggi costituiscono anche una costruzione ideologica, come ormai accade correntemente in Europa con la paura. Una sinistra intristita e depressa è quello che manca ai poteri dominanti per essere definitivamente tranquilli. Io, come immagino la maggior parte di voi, fin che posso e per quel che vale, questa tranquillità non glie la voglio concedere. Anche perché, non so voi, ma io considero la mia posizione, la posizione di chi può lottare senza tanti rischi per i diseredati, per gli ultimi, per chi non ha voce, una condizione di incomparabile privilegio.

Cari saluti,

Piero

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24 aprile 2017

Cari e care,

l’analisi lucidissima (e implacabile) di Piero meriterebbe una riflessione non episodica.

Da parte mia, tento di dare il mio contributo di antichista e grecista.

È vero: la ferocia sta strutturando l’Occidente e la nostra Europa. Il mondo che si autodefiniva libero, in antitesi al mondo connotato negativamente dal muro di Berlino, è ormai pieno di muri. E non passa giorno, restringendo di poco il nostro sguardo, che in qualche angolo d’Europa non si produca un nuovo episodio di regressione. Nel senso di una revoca dei livelli di libertà, integrazione, apertura culturale e politica precedentemente raggiunti. Ed è difficile prevedere il margine di deterioramento delle condizioni materiali di vita, di arretramento sociale e culturale che le oligarchie finanziarie, sulla base di un potere di ricatto spudoratamente travestito da principio etico, possono ancora imporre alla popolazione dei paesi debitori; difficile prevedere quanto potrà ancora essere sacrificato sull’altare del fiscal compact. Fatta naufragare la Costituzione europea, si provvede alla ristrutturazione della governance, puntando a consolidare il potere della finanza e adattando al governo oligarchico della crisi, in nome della cosiddetta «governabilità», le Costituzioni nazionali. Insomma, un’Europa, che sta assumendo caratteri sempre più marcatamente postdemocratici.

Il caso greco (quello delle elezioni del 2012 e di Syriza) ha mostrato con chiarezza la nefasta interazione tra oligarchie nazionali e sovranazionali ed è stato anche l’indicazione più precisa di quanto insensata sia la via del ritorno alle sovranità nazionali e dell’abbandono del terreno europeo come il solo adeguato a contrastare la teoria e la pratica del neoliberismo. Nomino questa possibilità perché, come è ormai evidente, oltre la via postdemocratica, l’Europa sta sperimentando un’altra strada, regressiva e predemocratica: quella dei fili spinati, dei vaneggiamenti autarchici, del ritorno alla sacralità delle nazioni, della torsione populista, autoritaria e xenofoba: da Varsavia a Vienna, la chiusura nei confronti dei rifugiati, la compressione dei diritti civili, le visioni confessionali e identitarie dello Stato sono l’esempio più evidente di come sia ancora acuta la questione dei confini e con quanta violenza si ripercuota sulla vita dei cittadini, sui loro obblighi e sulle loro libertà. Si chiudono le frontiere e si respinge la fiumana degli indesiderati.

L’Europa che stiamo costruendo si configura di fatto come un fortilizio monetario, un tentativo di arroccamento della parte più ricca del pianeta, interessata a godersi la propria ricchezza, ma incapace di far fronte a chi non ha più patria perché la miope pulsione imperialista del mondo libero gliela ha disfatta. Un disagio lancinante, un’ingiustizia anche fisicamente intollerabile stanno demolendo le bardature retoriche della predicazione ingannevole, quasi un rumore di fondo, a proposito di un Occidente e di un’Europa come luoghi felici. È stato l’anniversario dei 60 anni dalla firma dei Trattati di Roma (e 30 anni dalla firma del programma Erasmus) e dentro i confini dell’Unione ci sono decine di migliaia di morti: a fronte dei viaggi-studio dei figli delle medie e alte borghesie europee, c’è l’impossibilità di movimento, ovvero la morte, per i loro coetanei non europei. Dinanzi a tutto questo (anche alla luce dei dati delle presidenziali francesi), la politica istituzionale appare ridotta a sole due opzioni: neoliberismo e forme di neofascismo (Clinton/Trump, Macron/Le Pen, Renzi/Salvini, con i 5 stelle a loro agio con entrambi). Le due opzioni, in verità, non sono affatto ‘alternative’: uso dei confini e delle frontiere per la gestione dell’ordine sociale, neoimperialismo in politica estera e neoliberismo in politica economica fanno parte dello stesso orizzonte.
E tuttavia, l’inadeguatezza degli interpreti e il prezzo spaventoso che il governo europeo della crisi ha mostrato di comportare non annullano, anzi rafforzano, la necessità di realizzazione di un programma costruito nelle lotte, di un movimento sovranazionale capace di aggredirne il modello attuale e di andare oltre i modesti correttivi delle ricette liberiste, praticati, nel migliore dei casi, dalle socialdemocrazie europee.

Oggi, all’ingresso di un nuovo Medioevo nel terzo millennio, è più che mai urgente rompere la miseria – politica e umana – di questo modello che giova ai potenti e umilia tutti gli altri, occorre infrangere l’illusione ottica di un presente immodificabile, cercare e percorrere una strada radicalmente altra, riappropriarsi del diritto a immaginare la vita.

Ebbene, io penso che, insieme a pratiche di lotta che tentino con le mani un rovesciamento della più urgente miseria umana, occorra un processo di lungo periodo: una rivoluzione dell’immaginario e delle prassi educative (la questione fondante del sistema pubblico di istruzione e formazione), che segni un’esperienza di discontinuità e di alterità. E credo che non esista esperienza di distanza più grande e più potente di quella offerta dal contatto con i classici greci e latini, dal confronto con le loro audaci e fragilissime utopie. I classici esprimono il più fiero contrasto all’ora: sono quello che attualmente non è di moda, portano con sé un timbro di battaglia, un’esigenza di contra-dizione.

E dunque, quello straordinario laboratorio politico che fu la polis greca può fornirci un formidabile effetto di contrasto. Una distanza. Una anomalia, forse anche uno smarrimento di fronte all’assenza di certezze edificanti e consolatorie. Niente può giovarci quanto la via d’uscita che gli antichi non seppero trovare, i problemi che non furono in grado di risolvere. E infatti, quella dell’utopia antica è una storia lunga e anche molto incoerente. Ma – quello che più conta – è la storia di una ricerca aporetica, condotta con lucido pessimismo: lo scacco, la sconfitta, è, per gli antichi, il destino degli uomini, ma, ineliminabile, è, per loro, anche il desiderio e la tensione alla felicità.

La proposta platonica (è solo un esempio tra i tanti possibili) è che qualcuno sia forzato a uscire dalla caverna dell’inconsapevolezza, compiendo il cammino verso la verità e la bellezza, e poi ritorni a impegnarsi nella fatica della politica. Anche contro il desiderio dei suoi precedenti compagni di prigionia, ancora servi del proprio asservimento, egli dovrà tentare di svolgere la propria missione. È l’utopia dello stato governato dai filosofi. Una sfida, questa, positiva, sebbene largamente destinata alla sconfitta, e una possibile via di uscita da un presente disforico, tanto più che la crisi non è solo nei valori, ma anche nelle condizioni materiali dei cittadini: nella Repubblica platonica la dispari distribuzione della ricchezza e l’insaziabile accumulo sono già chiaramente individuati come una minaccia alla stabilità e alla giustizia sociale. Ancora una volta, la democrazia, ieri come oggi, appare inetta a trovare soluzioni adeguate. Ma gli antichi sono nella condizione privilegiata di vedere i lineamenti albali di un mondo colonizzato dalla logica del guadagno senza averne ancora interiorizzato i valori e la inevitabilità.

Riescono a vedere tragicamente, nella sua interezza, l’orrore: quell’orrore del quale è parte non secondaria la facoltà di assuefare e omologare.
Prima di cianciare della riduzione dello spazio riservato ai classici nella nostra scuola pubblica, i nostri governanti (e i loro supporters) dovrebbero, forse, leggere con più consapevolezza la storia.

Un saluto caro,

Tiziana Drago

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26 aprile 2017

Carissimi amici,

lo scritto di Piero sul pessimismo, per il quale mi complimento con lui, mi sembra impostato sulla pratica gramsciana del pessimismo della ragione  e dell’ottimismo della volontà. Piero aggiunge che, rispetto ai tempi di Gramsci, oggi la intellighenzia è molto cresciuta e con essa la nostra capacità di conoscenza critica del mondo, come dimostra il fatto che anche in rete troviamo, a questo proposito, analisi molto lucide. Credo che ciò sia vero, ma non sono certo che questo possa mitigare il nostro pessimismo, che pure, Piero ha ragione, va tenuto sotto controllo.

Tutte le analisi acutissime di cui disponiamo, infatti, attraverso quale mediazione pratica possono divenire funzionali al cambiamento dello stato di cose esistente? Detto altrimenti e richiamando ancora Gramsci, gli intellettuali oggi a quale soggetto sociale possono essere “organici”? Al tempo di Gramsci e di Lenin al partito e , attraverso il partito, alla classe operaia, ma ora? Voglio sottolineare che il problema, dal quale siamo tormentati fino al pessimismo, è ancora quello del rapporto fra gli intellettuali che spiegano il mondo e il soggetto sociale che lo cambia. Ecco il punto dolente, il soggetto capace di abolire lo stato di cose presente.

I partiti si sono trasformati in comitati elettorali, ma ancora peggio è che, secondo il pensiero dominante, la classe operaia stessa è scomparsa, almeno come coscienza di sé dal momento che ancora alcuni milioni di lavoratori vanno in fabbrica ogni mattina. Come possono questi lavoratori o, almeno, un’élite di essi riacquisire consapevolezza del loro ruolo sociale generale? Credo che questo sia il primo problema da porci per combattere il pessimismo. Ma ancora, il concetto di classe operaia e quello di proletariato, ammesso che in passato abbiano coinciso, oggi sono chiaramente distinti. Se la classe operai si è sociologicamente assai ridotta, il proletariato, adempiendo le previsioni di Marx, ha dato luogo alla proletarizzazione universale, che fa pendant alla smisurata concentrazione della ricchezza. Sono sicuramente proletari gli impiegati dei call centers, i precari di ogni tipo, gli studenti disubbidienti, i disoccupati e chi più ne ha più ne metta. Ma questo esercito in continua crescita come può ridiventare “la gran classe dei lavorator”? Non solo, ma è ancora il lavoro in questa fase del capitalismo, tanto maturo da apparire marcio, che può costituire l’elemento unificante?

La società fondata sull’etica del lavoro è solo un ricordo e oggi le avanguardie di quell’esercito proletario a cui accennavo propendono per “ l’abolizione del lavoro salariato”. E’ bene notare che su questo punto coincidono con le aspirazioni del capitale, il quale vuole liberarsi della mano d’opera perché costosa e titolare di diritti che a volte fa valere. Eliminare il lavoro è, quindi, la parola d’ordine del capitale, che a tal fine procede per due vie: l’automazione generalizzata, che contro l’ottimistica previsione di Marx non solleva i lavoratori ma li emargina, e la produzione di danaro con il danaro, la finanziarizzazione del capitalismo, che ne segna anche l’indefinito declino.

È di fronte a questi problemi che, a volte, ci abbandoniamo al pessimismo, ma non è certo ignorandoli che possiamo reagire ad esso.

Vittorio Boarini

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26 aprile 2017

Caro Vittorio,

grazie della tua riflessione, che costituisce un contributo utile destinato al nostro sito. Vorrei solo aggiungere un paio di cose.La prima è che l’Officina è nata anche per vincere il pessimismo, per creare una comunità intellettuale che coopera nell’interpretazione critica del tempo presente, cerca di proporre idee, soluzioni possibili, visioni alternative del mondo. Lavoro di minoranze e certo poco visibile, ma senza il quale la politica inaridisce in vuota e inerte amministrazione dell’esistente.

La seconda cosa riguarda il pessimismo troppo cupo del finale del tuo articolo: il capitale che fa a meno del lavoro. Eh,no caro Vittorio, su questo ho riflettuto e scritto già in passato.Il capitalismo non è solo un modo di produzione, come ben sappiamo, è anche un modo di produzione e consumo. Se il capitale non trova nessuno che compra le merci prodotte dai robot, semplicemente muore…

Gli imprenditori  i loro prodotti devono venderli e i lavoratori sono anche consumatori, come aveva capito già Henri Ford. Dunque, se scompare il lavoro salariato, non può anche scomparire il salario, vale a dire il reddito dei lavoratori, senza il quale il capitalismo perde un suo caposaldo: il mercato. Quindi sempre meno lavoro e fatica, ma con distribuzione del reddito alla lunga inevitabile…

Cari saluti,

Piero

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28 aprile 2017

Caro Piero,

ti ringrazio per l’attenzione e la pronta risposta. Io, invece, ho dovuto pensare un po’ prima di scriverti perché, mentre sono perfettamente d’accordo sulla prima osservazione che tu fai (la funzione d’Officina dei saperi), la seconda mi ha lasciato perplesso.

Seguo la tua affermazione che non può scomparire il lavoro perché così scomparirebbe anche il salario e con esso il mercato. “Quindi sempre meno lavoro e fatica, ma con distribuzione del reddito alla lunga inevitabile”. Ma questo è il reddito di cittadinanza, un eufemismo per non dire sussidio di disoccupazione o pensione sociale, che il capitalismo alla lunga si deciderà a concedere nel tentativo di azzerare le classi lavoratrici trasformandole in una massa amorfa di dipendenti dall’assistenza pubblica. Non sono contrario al reddito di cittadinanza, sia chiaro, ma ritengo che il capitalismo cercherà di ridurlo a un sussidio di sopravvivenza, disarmando così le classi subalterne che non avranno più alcuna forza contrattuale. Anche qui assistiamo a una convergenza fra il progressismo più avanzato e le alte sfere della borghesia, che tendono a piegare a proprio vantaggio un ammortizzatore sociale illuminato.

Naturalmente, noi dobbiamo combattere con tutte le nostre forze affinché ciò non avvenga , dobbiamo contrastare questo disegno che prefigura una società orwelliana costituita da ristrette élites di plutocrati, tecnocrati e consiglieri del principe, da un lato, e un esercito di iloti, che sopravvivono grazie alla carità pubblica, dall’altro.

È cupo pessimismo? Rispondo con una citazione di Marx: “Spaventare il popolo per armarlo”.
Un caro saluto da Vittorio [Boarini]
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