“NEL MIO NOME”, LA FORZA DI SCEGLIERE da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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“NEL MIO NOME”, LA FORZA DI SCEGLIERE da IL MANIFESTO

«Nel mio nome», la forza di scegliere

Berlinale. Presentato in Panorama, il film di Nicolò Bassetti dà voce a un racconto empatico sulla transizione

Cristina Piccino  BERLINO  13.02.2022

Alla domanda: «Sei un maschio o una femmina?» da piccolo Andrea non sapeva mai cosa rispondere e scappava via. Era una bimba ma faceva fatica a rappresentarsi come tale, e quello che sentiva, come si vedeva lo affidava ai racconti che aveva iniziato a scrivere molti presto. Questo suo stesso disagio rispetto al proprio genere, al corpo, a ciò che di sé appariva all’esterno, la confusione di un contrasto costante che si faceva col tempo battaglia emozionale, lo provavano anche Raffi, Nic, e Leonardo, tutti nati bambine ma con una identità di sé percepita al maschile. È Leonardo che raccoglie le loro storie nei suoi podcast per dare a quello che definisce uno degli «atti incruenti più sovversivi che esistano», una narrazione.

COSA SIGNIFICA vivere una transizione di genere? A lui non interessa che i ragazzi parlino di come hanno scoperto di essere trans, vuole invece che raccontino la loro infanzia, le case in cui vivevano, l’adolescenza, i ricordi, i momenti importanti, i primi innamoramenti, e poi il passaggio che stanno vivendo e una scelta che pone molti interrogativi, a chi la vive e alla comunità; quel mondo intorno dove come ci ricordano i cartelli che aprono il film di Nicola Bassetti, Nel mio nome, nel nostro ordinamento giuridico non è previsto un terzo genere. Presentato ieri (con standing ovation) in Panorama Dokumente, il film di Bassetti – autore di Sacro GRA, il libro da cui è poi nato il film di Gianfranco Rosi, e del documentario Magnifiche sorti (2017) – accompagna i protagonisti nelle loro scelte e si mette all’ascolto concentrando lo sguardo su ciò che vivono in quel presente insieme a chi sta loro accanto, compagne e compagni – non appaiono mai le famiglie, i genitori, i possibili conflitti che hanno avuto con loro e che invece rimandano sempre a uno spazio collettivo.
Li seguiamo nel quotidiano di lavoro, di sogni, nelle sere in discoteca, passeggiate, nelle conversazioni sul futuro tra terapie ormonali, interventi chirurgici, diagnosi, questioni giuridiche. E la gioia per un’immagine di se stessi che pian piano, giorno dopo giorno, prende forma e finalmente corrisponde a come si sentono. Insieme alle domande che questo comporta, a partire dall’idea di un «maschile» che rifiuta gli schemi di una concezione «binaria» – «Non ho lasciato una gabbia per entrare in un’altra» dice Leo, che ama definire maschile e femminile «le colonne di Ercole» – ma sembra appunto aprirsi a qualcosa meno di più complesso, la scommessa di costruire una identità sfumata prima ancora del sesso. Nic, che vive insieme a Chiara, può finalmente lasciarsi alle spalle Irene, la persona che era, la bambina che non si piaceva, che faticava a riconoscersi; è un processo lungo, passa per visite mediche, avvocati, ma infine la nuova «carta di identità» è quello che è, ciò che appare, permette una corrispondenza fino allora mancata. Raffi, che ripara biciclette alla ciclofficina, può amare oggi il rosa che da piccola, quando era femmina odiava. E Andrea gioca con smalto e i capelli blu o biondo platino mentre registra col telefono i cambiamenti nei mesi, la voce, i peli, fino all’operazione.

«NON SI DICE mai la sofferenza di questo percorso» spiega Leo, dalle ragazzine che erano e che appaiono nei filmini di famiglia imbronciate, forse un po’ tristi, in quei corpi che non capivano, a cui sfuggiva qualcosa: non erano loro ma estranei, come i vestiti che nella loro ricerca apparivano sempre fuori posto.
All’inizio di questo progetto c’è la transizione vissuta dal figlio del regista che se anche «invisibile» mette in gioco a sua volta il proprio vissuto, e questo permette una relazione di vicinanza che è necessaria per sfuggire a un racconto di superficie e di luoghi comuni. Bassetti lavora sui vissuti, e lascia a questi il compito di modulare ciò che interrogano, le molte sfumature di un’ idea di «identità», le discussioni (e le polemiche) che appartengono al nostro presente, ciò che per ciascuno dei ragazzi significa questa ricerca continua rispetto al proprio stare al mondo, una scommessa aperta.

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