SOCIETÀ, SOLITUDINE, POVERTÀ da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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SOCIETÀ, SOLITUDINE, POVERTÀ da IL MANIFESTO

Storia artificiale dei nostri sentimenti

ITINERARI CRITICI. Da Sherry Turkle a Noreena Hertz, un’umanità separata e iperconnessa. Nel corso di 50 anni robot intelligenti e macchine sensibili hanno ridefinito identità e relazioni. «Insieme ma soli» e «Il secolo della solitudine», due saggi sul senso di isolamento e mancanza di contatto. Una crisi e un distacco che la pandemia ha accentuato vistosamente

Claudia Bruno  16.11.2021

Durante l’ultima edizione del Festival della Mente, lo psicoanalista Luigi Zoia faceva notare come proprio negli anni del nostro massimo avanzamento tecnologico l’intelligenza umana sia di fatto regredita. Certo, dipende anche dai criteri di valutazione utilizzati dalla scienza, e forse oggi ci sarebbe da considerare un’intelligenza più che in base all’autonomia d’azione e di pensiero, per la sua capacità di interagire con un algoritmo.

In ogni caso, qualcosa di simile sta accadendo a livello sociale, proprio mentre si moltiplica la possibilità di entrare in contatto con chiunque, gli esseri umani si sentono sempre più soli. Non vale per tutti, e non per tutti è vero alla stessa maniera, ma quasi tutti sappiamo cosa si prova a camminare con un «organo» in mano – la scatola nera che contiene oltre alle password tutti i nostri segreti e le poche cose che pensiamo di sapere – e accorgersi all’improvviso di averlo dimenticato da qualche parte. Non solo è come ritrovarsi senza un pezzo, ma senza un pezzo estremamente funzionale alla sopravvivenza, tanto che senza potremmo avere addirittura l’impressione di non esistere: più che un’amputazione un ictus.

MA È DAVVERO COSÌ, o si tratta di un’illusione fabbricata su misura? Nel libro Insieme ma soli (Einaudi, 2019), uscito per la prima volta negli Stati Uniti nel 2011 e ancora dotato di una brillantezza necessaria, Sherry Turkle, sociologa della scienza e della tecnologia del Mit di Boston che da trent’anni studia le relazioni tra psicologia umana e nuove tecnologie, lo chiama il «momento robotico», quello in cui abbiamo sviluppato «uno stato di disponibilità emotiva a concedere ai manufatti sociali più del dovuto».
Dal Grillo Parlante ad Alexa, passando per Tamagotchi, Furbi, Hello Barbie e finti cuccioli di foca, Turkle ricostruisce la storia artificiale dei nostri sentimenti partendo dalla cameretta dei giochi e arrivando alle app che promettono di migliorarci la vita fino a quando non saremo più autosufficienti. Abbiamo inventato macchine capaci di sfruttare la nostra vulnerabilità, ci spiega a proposito dell’interazione con robot intelligenti e macchine sensibili: «volevamo sentirci riconosciuti, e non volevamo sentirci soli». L’evoluzione di internet e quella delle «creature» digitali che accudiscono o che chiedono di essere accudite, per Turkle sono due linee che si intrecciano al nostro bisogno di essere più desiderabili e allo stesso tempo di non rischiare troppo la faccia. È così che la ridefinizione di sé negli ultimi cinquant’anni è andata incontro ai mutamenti della nostra stessa idea di relazione, e lo ha fatto seguendo un andamento regolare: quanto più chiediamo alle macchine, tanto meno pretendiamo dalle persone.

UNA DONNA quasi settantenne, racconta Turkle a commento di uno dei suoi studi, descriveva con queste parole il suo iPhone acquistato da poco: «È come avere nella borsetta una piccola Times Square: tutte le luci, tutte le persone che potrei incontrare». «La gente è sola. La rete è seducente» scrive Turkle. «Ma se siamo sempre ‘on’, potremmo privarci delle risorse della solitudine». Nel tempo degli hikikomori, degli hater, del cyberbullismo e del revenge porn, una volta imploso il limite tra cosa è percepito come «vero» e come «falso», tra cosa è «autentico» e cosa è «simulato», c’è davvero da interrogarsi sulla tenuta delle parole.
Noreena Hertz, economista londinese attualmente a capo del Centre for International Business and Management dell’Università di Cambridge da qualche settimana in libreria con Il secolo della solitudine (Il Saggiatore, pp. 411, euro 25, traduzione di Luigi Muneratto), riparte dalle definizioni. «Non solo la solitudine è diversa dall’essere soli” scrive “ma è anche stata spesso definita in termini troppo ristretti. La solitudine del ventunesimo secolo copre uno spettro molto più ampio». È un discorso che in italiano rischia di inciampare nello scioglilingua, anche per il fatto che disponiamo dello stesso termine per riferirci a situazioni diverse – in inglese si usa loneliness per indicare una condizione di isolamento non scelto ma subìto e solitude per riferirsi allo stare da soli, senza necessariamente sentirsi soli.

QUELLO CHE HERTZ FA nel suo libro è riprendere la scala della solitudine sviluppata dalla Ucla nel 1978 e a cui le ricerche più recenti sul tema ancora si riferiscono, ed estenderne i confini alle relazioni sui luoghi di lavoro, tra concittadini, con la politica e con lo stato, allargando così il discorso sulla solitudine dalla salute mentale alla salute pubblica, passando per la crisi di sfiducia in corso nei confronti delle istituzioni e arrivando all’esclusione sociale.
«Se dovessi riassumere la tua tipica clientela cosa diresti?» chiede l’autrice a Brittany, amica noleggiata per un pomeriggio da una società chiamata Rent-a-friend, una versione per adulti della bambola robotica immessa sul mercato dalla Mattel nel 2015. «Professionisti soli, tra i 30 e i 40 anni. Quel tipo di persona che lavora molte ore e sembra non avere il tempo di farsi degli amici» risponde l’amica a noleggio, che in questo caso è una persona in carne e ossa. Hertz la definisce «economia della solitudine»: colloqui di lavoro automatici, prestazioni sessuali on demand, compagni in affitto e assistenti robot; non è una sci-fi ma la realtà che stiamo vivendo, e quello che è successo con la pandemia non ha fatto altro che portarlo all’attenzione della coscienza. Le prime pagine di Hertz sono ambientate proprio durante il lockdown di marzo 2020, quando un terzo della popolazione mondiale era costretto all’autoisolamento.

GLI ESPERTI DI NARRAZIONE lo chiamerebbero «inciting incident», non esattamente l’inizio della storia ma l’elemento scatenante che definisce l’orizzonte degli eventi. In questo senso, la pandemia ha scoperto le carte nei nostri vissuti, chi fino ad allora non aveva coltivato relazioni «vere» è rimasto al centro di un cortocircuito sociale. Per molti, quel momento ha messo a nudo un nervo scoperto: eravamo soli e lo eravamo già da molto tempo, se internet ci aveva salvati spesso indicandoci la fermata giusta dove scendere in metropolitana o i passi che mancavano per raggiungere una biblioteca, un mercato all’aperto o un locale dentro cui ci saremmo consolati in un corpo a corpo occasionale e anonimo, questa volta non ci sarebbe riuscita.
Nelle sue pagine Hertz passa in rassegna centinaia di studi sullo stato di connessione permanente in cui da anni siamo immersi, sulla sparizione del contatto fisico nelle interazioni, sulla sostituzione delle relazioni con i contatti e sulle conseguenze che la solitudine come emarginazione sta già producendo a livello sanitario e politico. Non si tratta della nostalgia di un passato pre-tecnico, e nemmeno di uno sfogo tecnofobico, ma di mettere in questione gli usi che delle tecnologie stiamo facendo, del mondo che vogliamo abitare e delle vite che vogliamo vivere.

Se come dati e fatti mostrano chiaramente, di questa solitudine non soltanto ci si ammala ma si muore, non è del tutto assurdo pensare, come propone l’autrice, a campagne pubbliche per ridurre i tempi d’utilizzo di smartphone e social media, di introdurre moderatori umani esperti all’interno delle piattaforme, di considerare l’industria delle nuove tecnologie alla stregua di quella dell’alcol o del tabacco. Oggi sappiamo che i mi piace e gli scroll infiniti sulle timeline dei principali social network generano dipendenza, che sono tossici perché allontanano le persone da se stesse e dal loro senso nel mondo ancora prima di allontanarle dagli altri e dal mondo. E che non siamo tutti uguali, ci sono personalità «fragili», forse in un modo o nell’altro lo siamo tutti.

NON È UN CASO se, racconta Hertz, aumentano le persone di tutte le età e classi sociali che decidono di «sloggarsi» o cancellare per sempre il proprio account dal racconto eccezionale delle proprie vite ritoccate per riconnettersi con le loro esistenze imperfette e reali. È da qui che dovremmo ripartire, prima ancora che una crisi sociale o politica, la solitudine che stiamo vivendo è una crisi di umanità. Per uscirne, scrive Hertz, ci sarà bisogno di «riconciliare il capitalismo con la compassione», di trovare nuovi modi per «riunirci in un mondo che si sta disgregando». E no, fare appello alla «tradizionale aura di libertà di parola che avvolge il primo emendamento degli Stati Uniti» non sarà abbastanza. Perché il punto, in questo secolo, non è la libertà di parola ma cosa intendiamo per cura, chi e come scegliamo di amare. E potrebbe girare la testa, a pensare a come una generazione di bambini ha conosciuto la morte di fronte a pulcini composti di pixel racchiusi in schermi a forma di uovo.
Ma non si può tornare indietro, il futuro che abbiamo davanti passerà necessariamente attraverso quello che l’amore per l’inanimato ci avrà insegnato di noi e su quello che vogliamo essere, su quello che le macchine possono darci davvero e su cosa vogliamo ancora aspettarci dalle persone.

In Italia 1 milione e 300 mila minori vivono in povertà assoluta

Lo studio. L’«Atlante dell’infanzia a rischio 2021» curato da Save The Children lancia l’allarme Per i minori crescono le disuguaglianze, mentre l’ascensore sociale è in caduta libera. Lo afferma Save The Children nell’Atlante dell’infanzia a rischio 2021, presentato ieri a Roma. Rispetto a 15 anni fa in Italia gli under 18 sono 600mila in meno, ma 1 milione in più non hanno l’indispensabile per vivere. Nel 2020 in povertà assoluta erano 1 milione e 300 mila. «Buona parte sono permanentemente in questa condizione e ciò significa che il loro destino è segnato», ha detto Linda Laura Sabbadini, direttrice centrale Istat.

La tendenza di lungo corso ha registrato una lieve frenata solo nel 2019, grazie all’introduzione del reddito di cittadinanza e prima dell’arrivo della pandemia. Su una platea di 3 milioni di beneficiari i minori sono 753mila: uno su quattro. Un dato meno appariscente ma forse più significativo rispetto alle truffe dei «furbetti» regolarmente utilizzate per screditare la misura.

Oltre la povertà, lo studio di Save The Children disegna una mappa di disuguaglianze sociali, economiche e geografiche «sempre più marcate». In Italia solo un bambino su 7 usufruisce di asili nido (14,7%), dato medio tra gli estremi in Calabria (3,1%) e provincia autonoma di Trento (30,4%). Le forti differenze tra Nord e Sud continuano nella scuola primaria: a livello nazionale il 36,3% delle classi ha il tempo pieno, tra il 95,8% a Milano e il 4,5% a Ragusa. «Abbiamo la percentuale di Neet più alta d’Europa», ha sottolineato il presidente dell’Ong Claudio Tesauro, invitando politica e istituzioni ad ascoltare bambini e ragazzi per metterli al centro del cambiamento.

Lo strumento per invertire la rotta potrebbe essere il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Secondo la direttrice dei programmi Italia-Europa di Save The Children Raffaela Milano rappresenta, combinato agli altri programmi europei in arrivo, «un investimento complessivo sull’infanzia che non ha precedenti dal dopoguerra». Se però quei fondi invece di andare alle aree più deboli e deprivate, in un’ottica riparativa, rafforzeranno i territori più bravi a riceverli il rischio, continua Milano, è «di migliorare gli indicatori nazionali senza ridurre, anzi aggravando, le disuguaglianze».

All’Atlante di quest’anno è associata una ricerca della società specializzata Ipsos sulla «cittadinanza scientifica» dei giovani che vivono in Italia, paese in cui nel 2020 sono stati iscritti all’anagrafe 404.104 nuovi nati e immatricolate 1.437.259 autovetture (oltre un minore su cinque vive in città inquinate). Tra ragazze e ragazzi 8 su 10 hanno fiducia nella scienza. Secondo loro questa deve affrontare soprattutto pandemia, lotta al cancro, smaltimento dei rifiuti e fame nel mondo, mentre nel futuro avrà come priorità invecchiamento della popolazione, energie sostenibili e diseguaglianze economiche. Tra gli intervistati il 35% si sente rappresentato da Ong e volontariato, il 27% da movimenti come Fridays for future o Black lives matter e appena il 10% dai partiti politici tradizionali.

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