INFLAZIONE: PROTESTE e REGALI da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
Cultura, Saperi, Università, Dialogo
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INFLAZIONE: PROTESTE e REGALI da IL MANIFESTO

L’inflazione alimenta se stessa e la protesta dei redditi da lavoro

Nuova finanza pubblica. La rubrica settimanale di economia e welfare. A cura di autori vari

Marco Bertorello, Danilo Corradi  11.12.2021

La crescita dell’inflazione si rafforza, sfondando quota 6% negli Usa e toccando quota 5% in Europa. Il dibattito sulle cause è acceso e, mentre fino a qualche giorno fa il grosso dei commentatori e dei player finanziari affermava con nettezza la dimensione temporanea della fiammata dei prezzi, oggi emerge un quadro decisamente più eterogeneo. Se Ursula von der Leyen ribadisce la tesi di una inflazione da rimbalzo, prodotto di un picco da domanda effetto dell’elastico temporale del Covid, in diversi sottolineano elementi analitici differenti. Prodi ha evidenziato come una componente importante della crescita dei prezzi sia determinata da difficoltà di offerta non solo momentanee.

La riorganizzazione produttiva prodotta dall’emergenza Covid non è semplicemente emergenziale, ma impatta su scelte strutturali d’investimenti e allocazione, determinando strettoie e colli di bottiglia non banali da superare. A questo si somma indubbiamente il problema energetico, che richiama conflitti e strategie geopolitiche, ma anche la crisi strutturale di un modello produttivo fondato sul carbon fossile e difficilmente espandibile. A fine novembre il Sole 24 ore titolava che i prezzi delle materie prime erano «fuori controllo». Gli Usa hanno fatto straordinariamente ricorso alle loro riserve strategiche di petrolio e forse anche per questo il presidente della Fed Powell ha recentemente dichiarato che l’aggettivo «transitoria», riferito all’inflazione, andrebbe ritirato.

Subentra poi una componente psicologica: la corsa a cercare «riserve» di merci che scarseggiano. Accade che si compra semplicemente in previsione di un aumento del prezzo della merce acquistata. In qualche modo tornano persino utili riserve di magazzino. Comprare ora appare di per sé un buon investimento. Tutto ciò determina una spirale inflazionistica che si autoalimenta.

Non solo. La finanza non sta a guardare, sposta parte dei suoi flussi da prodotti a tassi reali negativi, proprio in direzione di quegli asset il cui corso è spinto dall’inflazione, contribuendo a una ulteriore rincorsa dei prezzi. Molti commentatori si dicono fiduciosi nell’intervento delle banche centrali, cioè in una normalizzazione delle politiche monetarie ultraespansive. La strada non sembra così semplice.

Il rischio è quello di non fare i conti con una crescita estremamente fragile supportata ormai dall’iniezione di massa monetaria crescente da oltre un decennio. Andare nella direzione inversa potrebbe compromettere la ripresa e di conseguenza generare nuovamente instabilità su debiti pubblici e privati ormai cresciuti all’inverosimile. È proprio l’enorme quantità di debito pubblico coniugato a massicce dosi di moneta che ci spingeva già a metà del 2020, in pieno contesto pandemico, sulle pagine della rivista Jacobin Italia, a ipotizzare uno scenario ad alta inflazione. L’inflazione è una delle strade per contenere il debito pubblico, senza assumersi la responsabilità di scelte fiscali da parte di esecutivi deboli.

La crescita dei prezzi alza il Pil nominale, svalorizza i debiti pregressi, genera, almeno in una prima fase, tassi reali fortemente negativi. Un’opzione che, almeno inizialmente, tende a colpire patrimoni monetari e rentiers che vivono di rendita finanziaria. Il rovescio della medaglia, però, consiste nel creare una sorta di tassa occulta per i milioni di individui che vivono esclusivamente del proprio reddito, in particolare se non vi fosse una ripresa del conflitto sociale e sindacale per fronteggiare l’aumentare del costo della vita.

Quest’ultimo aspetto oltre che conferire potenzialmente nuovo potere politico al lavoro (le isterie attorno allo sciopero di Cgil e Uil sono in pieno corso) potrebbe contribuire, alla lunga, ad alimentare la spirale inflazionistica stessa. Complessivamente un bel dilemma per le classi dirigenti. La forza lavoro meglio che si attrezzi, perché la sensazione è che non sarà una tendenza di breve periodo.

L’ecobonus, dalla transizione ecologica a regalo alla rendita

Sviluppo. L’ecobonus, lasciato alla mercé della libera iniziativa privata, sta diventando appannaggio quasi esclusivo di fasce sociali ed entità giuridiche più informate e più pronte a coglierne i vantaggi

Gaetano Lamanna  11.12.2021

I provvedimenti del governo Draghi sulla casa spiegano bene il collegamento tra aumento delle diseguaglianze sociali, inefficienza e iniquità fiscale. La casa è una questione sociale irrisolta e, al tempo stesso, si delinea come uno snodo importante delle politiche ambientali. Grazie all’ecobonus del 110 per cento sugli interventi di riqualificazione energetica e antisismica del patrimonio residenziale, il comparto dell’edilizia è in forte ripresa. Detto questo, è pur vero che un provvedimento, di per sé positivo perché per la prima volta antepone la manutenzione al consumo e alla cementificazione del suolo, presenta due gravi difetti. Il primo è che le maglie dei possibili beneficiari si sono troppo allargate, arrivando a comprendere seconde case, collegi, ospizi, conventi, seminari, case di cura, e via dicendo. Sarebbe stato quanto meno opportuno affidare alle amministrazioni locali un ruolo di coordinamento e di programmazione degli interventi, anche per stabilire criteri di priorità.

Invece l’ecobonus, lasciato alla mercé della libera iniziativa privata, sta diventando appannaggio quasi esclusivo di fasce sociali ed entità giuridiche più informate e più pronte a coglierne i vantaggi. Il risultato è che le impalcature si vedono dappertutto, fuori e dentro le mura urbane, soprattutto davanti ai palazzi condominiali dei quartieri di media e ricca borghesia o intorno alle ville unifamiliari, meno nelle nostre periferie, nei centri storici degradati, nelle borgate e nelle zone ex Iacp (case popolari), dove gli impianti di riscaldamento sono inefficienti e costosi. L’ecobonus, scansando nella sua attuazione pratica i ceti a basso reddito, si configura come l’ennesimo fattore di disparità sociale.

In secondo luogo, al netto di frodi e truffe (già venute a galla) migliaia di immobili, ritrovando efficienza e qualità, aumentano sia il valore d’uso che quello di scambio. La ratio della legge è il recupero di valore d’uso, anche in chiave di contrasto al cambiamento climatico. Ma a prevalere, ancora una volta, è il valore di scambio. I lavori di ristrutturazione contribuiscono in modo considerevole a determinare il prezzo di mercato dell’immobile, che negli anni si rivaluta anche grazie ai processi di riqualificazione urbana ad opera della mano pubblica: verde, infrastrutture, servizi. Ciò potrebbe spingere il proprietario a incassare il capital gain (il guadagno di capitale) maturato nel tempo e quello acquisito con l’ecobonus. Assistiamo così al paradosso che case, ville, fabbricati con varia destinazione d’uso, ristrutturati con i soldi dei contribuenti, possano essere rivenduti con tanti saluti e ringraziamenti da parte di chi fa l’affare.

Il provvedimento non prevede nulla che impedisca operazioni speculative subito dopo la fine dei lavori. Com’è noto, nel nostro paese, a differenza del resto d’Europa, manca un’imposta sulle plusvalenze realizzate con le transazioni immobiliari. Le poche imposte che si pagano, quelle catastali, sono solo a carico degli acquirenti. Siamo di fronte a un caso di scuola. Un esempio eclatante di legislazione per la “transizione ecologica” piegata a vantaggio dei ceti benestanti e dei rentiers (beneficiari di rendite).

Ma non finisce qui. Tra le misure di sostegno, varate in piena pandemia dal governo Draghi, c’è la possibilità per i giovani sotto i 36 anni di comprare casa con mutui agevolati e garantiti dallo Stato. Una grande banca si spinge a offrire mutui al 100 per cento fino a quarant’anni! I proprietari di decine di migliaia di edifici, rimasti invenduti nelle periferie urbane, applaudono. Dietro la parvenza di una politica per i giovani si cela in realtà un grosso regalo alla rendita. A che serve concedere incentivi per comprare casa quando, con insistenza, viene chiesto ai giovani di essere disponibili alla mobilità territoriale per trovare lavoro?

Sarebbe molto più coerente investire nella ricomposizione e nell’allargamento di uno stock di alloggi sociali in affitto. Si continua a privilegiare la proprietà quando sarebbe di gran lunga preferibile un riequilibrio del rapporto proprietà-locazione. Siamo dunque di fronte a un provvedimento sbagliato, che favorisce i figli di papà e, comunque, famiglie agiate che possono investire nel mattone, intestando la proprietà ai figli.
In Italia abbiamo un surplus di abitazioni – solo a Roma se ne contano 200 mila inutilizzate -, ma senza un uso adeguato della leva fiscale il mercato dell’affitto non riparte. Il punto è che la rendita non è tassata ed è favorita in tutti i modi. Le imposte sul patrimonio contribuiscono con un misero 7 per cento al gettito fiscale complessivo.

Quelli che quotidianamente criticano il reddito di cittadinanza come fonte di sprechi non spendono mai una parola sui proprietari che non pagano l’Imu sui palazzi invenduti o la pagano solo al 50 per cento. Un vero scandalo. Solo una tassazione efficace può evitare che grandi ricchezze continuino ancora a nascondersi e che la rendita si ponga come motore di sprechi e di nuove ingiustizie, senza essere chiamata in alcun modo a contribuire al benessere collettivo.

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