IL MESSAGGIO CHE VIENE DAL CILE da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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IL MESSAGGIO CHE VIENE DAL CILE da IL MANIFESTO

Il messaggio che viene dal Cile

La vittoria della sinistra. È un voto di rivolta, una svolta che ci riguarda direttamente. Intanto e subito chiama a verifica le forze di sinistra e i movimenti d’opposizione del Continente latinoamericanoTommaso Di Francesco  21.12.2021

Davvero una bella notizia. Gabriel Boric, 35 anni, deputato ed ex leader delle proteste studentesche, è stato eletto presidente del Cile. Boric ha ricevuto il 56% delle preferenze, sconfiggendo il rivale Josè Antonio Kast, fascista-pinochettista con il suo richiamo aperto al golpe militare sanguinoso che nel settembre del 1973 abbatté il governo democratico del «compagno presidente» Salvador Allende. C’era di che essere preoccupati alla vigilia dall’affermazione al primo turno delle presidenziali del candidato dell’estrema destra – abbiamo aperto domenica con «L’ombra di Pinochet», mentre in casa nostra il razzista Salvini si augurava «per l’ordine» la vittoria del fascista Kast. L’ombra si è dissolta, a cominciare dal sì di un anno fa alla nuova Costituente, e con la vittoria schiacciante di Boric si è fatta nuova luce su mezzo secolo di conflitti non solo dell’America latina.

È un voto di rivolta, una svolta che ci riguarda direttamente. Intanto e subito chiama a verifica le forze di sinistra e i movimenti d’opposizione del Continente latinoamericano che a partire proprio dal golpe di Pinochet, attraverso il famigerato Plan Condor che coinvolse a pieno l’intelligence delle varie amministrazioni Usa, vide l’affermazione di dittature militari nei punti chiave della sua crisi, dall’Argentina, all’Uruguay, alla Bolivia – nel ’64 i militari avevano preso il potere già in Brasile. E dove, come in Cile, non è bastato che al governo arrivassero forze di centrosinistra per avere un cambiamento nella gestione del potere e nella trasformazione egualitaria della società.

Intanto si rompe l’isolamento di esperienze centrali per comprendere la crisi politica mondiale, come quella del Venezuela dove pure non solo il carisma di Chavez aveva costruito una svolta progressista ma l’avvento anche di un vasto movimento di protesta sviluppatosi in tutti gli anni Novanta; e come quella rivoluzionaria di Cuba, sotto assedio e in stato di sopravvivenza, non solo per effetto di un criminale embargo Usa perpetuato anche dalla nuova amministrazione Biden, ma anche per le difficoltà di gestione delle nuove decisive riforme economiche.

Una rottura dell’isolamento e l’apertura di nuove prospettive che vale anche per il Brasile ora nella morsa del protofascista populista Bolsonaro arrivato al potere dopo una stagione di destabilizzazione mediatica e giustizialista, un vero e proprio «golpe bianco», contro l’esperienza democratica di Lula. Ma il messaggio arriva anche da noi, nel Vecchio continente, quello di un’Unione europea «reale», nata male sulla base di una moneta che si voleva unico cemento «unificante», e malvissuta nella logica della primazia dei mercati e del fiscal compact imposto perfino nelle costituzioni nazionali; in un’Europa dove la critica al neoliberismo e alla centralità del mercato e delle sue scelte arranca e quasi è costretta ad approfittare della tragedia pandemica per avere voce ed ascolto.

E segnatamente la svolta cilena arriva, dovrebbe arrivare, anche in Italia. Vince infatti in Cile una coalizione di sinistra radicale Apruebe Dignidad (approvare la dignità) – il Cile si riprende la dignità: Pinochet aveva chiamato “Dignidad” una colonia penale per oppositori – , con i comunisti che non si sono «suicidati», una coalizione che ha guidato le lotte contro le privatizzazioni e il neoliberismo e che per la sua credibilità ha conquistato anche la maggior parte del decisivo voto centrista. Mentre in Italia «la sinistra che abbiamo conosciuto non esiste più», eternamene ricondotta nel cortile delle compatibilità e della governance; e anche quella d’opposizione scompare, dispersa in mille rivoli contrapposti. Come dimenticare invece che qui, proprio in Italia, l’esperienza cilena ha lasciato segni profondi nell’evoluzione della nostra storia recente?

Il compromesso storico di Berlinguer, e non le sinistre unite al governo, fu tra l’altro la risposta politica – presentata come «obbligata» – al pericolo fortissimo di una soluzione cilena per un Paese che vedeva ancora in campo un vasto movimento di protesta nato con le lotte studentesche del ’68 e diventato strutturale solo con la scesa in campo nel ‘69 di un grande movimento operaio. Contro il quale la repressione e la provocazione violenta non tardarono a farsi vive con una stagione militare di stragi neofasciste orchestrate all’interno degli apparati centrali dello Stato. E anche la scellerata scelta di una parte marginale e minoritaria di quella esperienza, di ricorrere alla scorciatoia della «lotta armata» fu, nella logica di chi la sceglieva, una «risposta giustificativa» – ma nefasta, sconsiderata e perdente in partenza – alla sconfitta violenta cilena.

Ma l’insegnamento più forte che arriva dalla svolta in Cile riguarda, sempre come riflesso di quella storia, la crisi mondiale attuale e il destino delle nuove generazioni. Perché la dittatura di Pinochet non fu una «tradizionale» dittatura fascista ma il primo esperimento mondiale, pagato dal popolo cileno, del modello di «neoliberismo autoritario» che sarebbe diventato dominante sul finire del secolo breve ma anche nel nuovo secolo in corso. Un modello che si è avvalso proprio del «lavoro» della scuola economica dei Chicago Boys, gli economisti guidati da Milton Friedman.

Vince in queste ore in Cile la giovane generazione che, contro governi di centrodestra e di centrosinistra, si è battuta, pagando spesso anche con la vita, contro i processi di privatizzazioni che hanno colpito la scuola, la sanità, il sistema di welfare a partire dalle pensioni, riducendo alla povertà i cileni – e il Continente latinoamericano – e costruendo un sistema di diseguaglianze che chiamava la gente a partecipare diffondendo l’ideologia individualistica della «scelta di libertà». Grazie Cile.

2021 in America latina: iniziato con un banchiere, chiuso da una progressista

Al voto. Un lungo (e strano) anno elettorale inaugurato da Lasso in Ecuador e finito con Castro in Honduras. Exploit della sinistra in Perù e degli indigeni ecuadoriani, la peggiore destra per El Salvador ed Ecuador

Claudia Fanti  21.12.2021

Con la vittoria di Gabriel Boric in Cile, si chiude in bellezza per l’America latina un anno elettorale particolarmente complesso ma di certo non privo di luci.

Il 2021 non si era aperto nei migliore dei modi: il primo appuntamento elettorale, il 7 febbraio in Ecuador, si era risolto con il sorpasso al fotofinish del banchiere Guillermo Lasso sul candidato indigeno Yaku Pérez, a cui era seguita, al ballottaggio dell’11 aprile, la vittoria del candidato di destra sul «correista» Andrés Arauz, grazie anche alla scelta del «voto nullo» di una parte consistente del mondo indigeno, fortemente critica nei confronti dell’ex presidente Rafael Correa.

Ma il processo elettorale, pur condizionato dalle divisioni a sinistra, aveva celebrato l’importante affermazione del movimento Pachakutik, divenuto la seconda forza politica più importante dopo la Unión por la esperanza di Arauz e dunque in grado di condizionare l’agenda e i contenuti della politica del paese.

Ad accendere le speranze della sinistra latinoamericana, sempre l’11 aprile, era stata in Perù la vittoria a sorpresa del maestro e leader sindacale Pedro Castillo, il rappresentante dei ninguneados – tutti i nessuno del mondo rurale andino da sempre ignorati e disprezzati dalle istituzioni – grazie a cui il candidato di Perú libre avrebbe poi superato al ballottaggio del 6 giugno, malgrado inverosimili accuse di brogli, la candidata dell’estrema destra Keiko Fujimori.

Una vittoria che aveva alimentato la speranza di liberare il paese dall’eredità tossica del fujimorismo, prima che l’inguaribile vocazione golpista delle destre, insieme ai non pochi errori governativi, mettesse a dura prova il sogno di un riscatto degli ultimi.

Ma quello stesso 11 aprile, con il secondo turno delle elezioni regionali e municipali in Bolivia, aveva anche confermato la difficoltà del Movimiento al Socialismo, già duramente sconfitto al primo turno, a consolidare le proprie posizioni dopo la trionfale vittoria sulle forze golpiste del binomio Arce-Choquehuanca, complici le polemiche sorte tra i vertici del Mas e le organizzazioni di base attorno alla scelta delle candidature.

Una difficoltà riscontrata anche in Argentina dal governo Fernández, che, alle legislative del 14 novembre, pur recuperando terreno rispetto al disastroso risultato delle primarie del 12 settembre, ha comunque perso la maggioranza al Senato, evidenziando l’urgente necessità di un cambio di passo sul fronte della lotta alla povertà e alle disuguaglianze.

E non è andata benissimo neppure a Andrés Manuel López Obrador, che in Messico, alle legislative del 6 giugno, ha perso la maggioranza qualificata alla Camera dei deputati, soffrendo per la prima volta un calo, non accentuato ma significativo, di popolarità.

Ha stravinto invece in El Salvador, alle parlamentari del 28 febbraio, il governo di Nayib Bukele che, con la sua formazione politica Nuevas Ideas, ha conquistato i due terzi dei deputati in parlamento, per poi procedere, forte del controllo sul Congresso, a destituire i giudici della Corte suprema di giustizia e il procuratore generale, concentrando di fatto nelle proprie mani tutti i poteri dello Stato.

Ma se in El Salvador è ormai in atto un’inarrestabile tendenza anti-democratica, non va molto meglio in Nicaragua: la coppia Ortega-Murillo ha vinto il 7 novembre elezioni presidenziali senza storia, con sette sfidanti agli arresti, una stampa indipendente o in carcere o costretta a operare nella clandestinità e un altissimo tasso di astensione (addirittura dell’80% secondo le organizzazioni semiclandestine d’opposizione Urnas Abiertas e Observatorio Ciudadano).

A riscattare il Centroamerica dalla sua deriva autoritaria ci ha pensato però Xiomara Castro, prima donna a essere eletta presidente in Honduras. Vincendo il 28 novembre le elezioni presidenziali, e in maniera così netta da scongiurare il rischio di brogli, la moglie del deposto Manuel Zelaya ha restituito al paese la speranza di uscire dall’incubo della narcodittatura di Juan Orlando Hernández.

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